domenica 30 luglio 2023

I PITTORI DEL WEST


L’America del nord di inizio Ottocento deve essere stata uno spettacolo incredibilmente affascinante per gli occhi di un europeo, o di un nuovo americano. Paesaggi incontaminati da costruzioni, da mezzi, persino da uomini. Praterie sterminate, fiumi impetuosi, giganteschi canyon, foreste apparentemente infinite, una natura pericolosa eppure per molti versi intrigante, invitante, paradisiaca.

Poi arrivano le carovane di coloni, i cowboy, le polverose cittadine di frontiera e si creano nuovi miti, affascinanti e pericolosi quanto la natura stessa: i pistoleri, i rumorosi saloon, le silenziose cavalcate nella prateria, le cariche di cavalleria, i villaggi indiani. Un serbatoio infinito di immagini, di emozioni, di storie. Non meraviglia, quindi, che molti pittori si siano innamorati di questo inesauribile serbatoi di spunti visivi e si siano sforzati di trasferirne il potenziale sulla tela e sulla carta. O quantomeno ci abbiano provato. Prima dell’avvento della fotografia, e per qualche decennio in competizione con essa, sono matite e pennelli a “raccontare” la Frontiera a chi non vi è ancora stato.

Tra i primi ad affrontare l’arduo ma invitante compito vi sono i pittori della Hudson River School, un movimento artistico americano della metà del XX secolo. Il nome deriva dall’abitudine dei fondatori di dipingere nella valle del fiume Hudson e zone limitrofe. Man mano che gli artisti aumentano si amplia anche il loro raggio d’azione. Si tratta di pittori influenzati dal romanticismo europeo, ma anche da una spinta religiosa, poiché ritengono che la natura sia una meravigliosa manifestazione divina. Per questo motivo il loro realismo tende a idealizzare la natura, per renderla ancora più bella, più mistica di quanto effettivamente sia. Le loro immagini sono imponenti rappresentazioni di territori immensi, dalla vegetazione rigogliosa, sovrastata da cieli colmi di nuvole attraverso le quali si fa strada una luce che ha del divino. Tra i molti artisti della scuola citiamo almeno Thomas Cole (1801 - 1848) e George Inness (1825 - 1894). Il primo, inglese naturalizzato statunitense, è considerato il fondatore della Hudson. Il secondo, uno degli ultimi artisti della scuola, estremamente prolifico con centinai di quadri al suo attivo.

Nella prima metà dell’Ottocento parecchi pittori sono della sorta di “documentaristi”, ingaggiati dal governo americano per immortalare eventi di una certa importanza. Un grande stato in formazione, e con una scarsa storia alle spalle, si sforza di fissare su tela i momenti importanti del presente perché entrino a far parte della Storia.
Così il Governo ingaggia James Otto Lewis (1799-1858), al quale nei primi anni venti del XIX secolo viene richiesto il dipinto “View of the Great Treaty Held at Prairie Due Chien” che documenta l’incontro tra rappresentanti di alcune tribù indiane e Stati Uniti, avvenuto nel 1825, per la firma di un trattato. Sulla scena svetta una bandiera americana.
A Charles Bird King (1785-1862), invece, viene commissionata dal Bureaus of Indian Affairs (l’Ufficio per gli affari indiani) una serie di ritratti di capi indiani in visita a Washington.
Su richiesta del Parlamento americano Seth Eastman (1808-1875), ufficiale e insegnante di disegno all’accademia di West Point, dipinge diversi quadri sul tema della Frontiera per decorare la Camera dei Rappresentanti (la camera bassa del Congresso degli Stati Uniti).

Poi ci sono le spedizioni governative dirette verso l’interno dell’America, a inizio Ottocento in buona parte ancora poco nota e da cartografare. Pittori e fotografi si aggregano quindi alle prime esplorazioni verso il semisconosciuto West, spedizioni utili anche per conoscere le popolazioni autoctone e per individuare potenziali vie commerciali.
Durante il viaggio, gli artisti immortalano paesaggi, popoli e scene significative e talvolta vendono quelle immagini anche alle riviste.
Tra questi artisti “itineranti” vi il tedesco di nascita Albert Bierstadt (1830-1902). Appartenente alla Hudson River School, nei suoi quadri Bierstadt interviene non poco per “migliorare” la natura. Virtuoso del pennello, nelle sue imponenti rappresentazione del West sembra quasi mettere in scena una lotta del bene contro il male, entrambi rappresentati sotto forma di eventi naturali. Certo è che nelle sue tele l’osservatore pare quasi perdersi, mentre le figure umane e animali sono spesso tanto piccole da apparire quasi invisibili di fronte all’immensità della Natura.

Dopo i pittori “romantici” e amanti della natura, arrivano quelli attirati dal miti della frontiera. Come Frederic Remington (1861 - 1909). Figlio di un eroe della Guerra Civile americana e di una giovane borghese, Remington ha una innata passione per i cavalli, per le cose militari e per il West. Quando si reca nella Frontiera questa è quasi al suo crepuscolo: la Guerra Civile è passata, le guerre indiane sono finite. Fa comunque in tempo a rappresentare gli ultimi momenti del selvaggio West. Suoi soggetti preferiti sono cowboy e indiani, cariche di cavalleria, burrascose cittadine. Si stacca dalla tradizione romantica dei suoi predecessori preferendo un maggiore realismo e puntando lo sguardo più sulle persone che sui paesaggi. Per gli sfondi utilizza colori pastello, tinte chiare, tratti poco marcati. Le figure umane, invece, sono maggiormente dettagliate e rappresentate con maggiori dettagli e colori più vivi. Uno dei suoi punti di forza consiste infatti nei particolari: i vestiti, le armi, gli accessori sono studiati e riportati con fedeltà sulla tela, ma anche nelle sculture, dato che l’artista eccelle anche in questa forma d’arte.
Secondo per fama a Remington è Charles Marion Russell (1864 - 1926), che si guadagna il soprannome “artista dei cowboy” realizzando più di 2.000 dipinti western. Russell sperimenta di persona la vita da cowboy e per un certo periodo vive anche con gli indiani. Comincia quasi per caso a dipingere e, riscontrato un certo successo, ben presto si dedica completamente a tale attività. Si segnala per il realismo delle sue opere, dopotutto dipinge persone e situazioni che in buona parte conosce personalmente, e per un uso significativo del colore.
Arriviamo a Newell Convers Wyeth (1882 - 1945), decisamente meno monotematico dei suoi predecessori dato che il West è solo uno dei tanti argomenti della sua attività artistica (indimenticabili, per esempio, g le sue immagini di pirati per il romanzo “L’isola del tesoro”). Attività che si divide tra pittura e illustrazione, che lo stesso Wyeth si premura di differenziare. Pur essendo un pittore di matrice realistica (anche lui sperimenta personalmente la vita di frontiera), i quadri di Wyeth sono pervasi da una luce e da un’atmosfera tali da conferirgli un aspetto epico. E se alcune sono movimentate dalla frenesia di una cavalcata di cowboy, in altre domina la placida calma di una canoa che scivola sull’acqua di un fiume o di un paesaggio privo di presenze umane.

Ma ben presto a rappresentare il Far West arrivano le illustrazioni di romanzi e racconti, che col passare del tempo sono destinate a sostituire i dipinti. Tali immagini acquistano sempre maggiore popolarità presso il grande pubblico, meno sofisticato, soprattutto grazie a prodotti editoriali a basso costo che contengono racconti brevi o storie a puntate: le dime novel (albi venduti a dieci centesimi) americane e le penny dreadfuls (albi a un penny) inglesi. Queste pubblicazioni nel Novecento negli Stati Uniti sfoceranno nei magazine pulp, dove le immagini rivestono una grande importanza. Ma questa è un’altra storia e, probabilmente, la racconteremo in futuro.




lunedì 24 luglio 2023

BLACK JACK & L'AI


Di recente, a Tokyo è stato lanciato un progetto per creare un nuovo episodio di Black Jack, famoso manga di Osamu Tezuka, utilizzando l'intelligenza artificiale. 

Makoto Tezuka, figlio di Osamu e a capo della Tezuka Productions, ne ha parlato in questi termini: “Pensiamo che l'intelligenza artificiale non possa realizzare un manga dello stesso valore di quelli di Osamu Tezuka, ma speriamo di ottenere un punteggio di 50 su 100”.

L’idea è di istruire l’AI a analizzare gli episodi realizzati da Tezuka per crearne uno nuovo, che sarà pubblicato sulla rivista Shonen Champion, la stessa che ha pubblicato la serie Black Jack dal 1973 al 1983.

Spiega ancora Makoto Tezuka: "L'intelligenza artificiale è solo uno strumento e ciò che conta è come qualcuno lo usa. Spero che l'intelligenza artificiale non tolga nulla ai creatori, ma li incoraggi invece a espandere le loro attività. Osamu Tezuka avrebbe sicuramente utilizzato l'AI se fosse esistita all'epoca."

Ha inoltre aggiunto che suo padre è stato il primo mangaka ad assumere assistenti, che hanno realizzato illustrazioni e disegni secondo le sue istruzioni. "Se l'intelligenza artificiale fosse esistita ai suoi tempi, mio padre probabilmente avrebbe potuto produrre manga di qualità ancora superiore.”

L’uso dell’AI anche in Giappone sta sollevando proteste e perplessità negli ambiti creativi. Un sondaggio del settore ha mostrato che molti creatori in Giappone sono preoccupati per la diffusione dell’AI e le sue potenziali implicazioni per la violazione del copyright, per non parlare dell'impatto su coloro che temono che i loro posti di lavoro possano essere a rischio.

Il 93,8% dei 27.000 intervistati, inclusi illustratori, fotografi e scrittori, è preoccupato per la violazione del copyright, mentre il 58,5% ha espresso preoccupazione per la possibile perdita del lavoro.

mercoledì 2 febbraio 2022

I "NASI" DEGLI AEREI


La nose art è una particolarissima forma artistica che ha preso piede sulle carlinghe di veri aerei da guerra. Letteralmente suona come “arte del naso”, dato che si tratta di immagini dipinte sui “musi” degli aeroplani. Nasce durante il Primo Conflitto Mondiale, quando alcuni biplani cominciano a riportare sulla fusoliera disegni tesi a identificarli. In realtà, il primo esempio documentato di nose art è precedente, dato che è datato 1913, e si tratta di un mostro marino dipinto su un idrovolante italiano. Allo scoppiare del conflitto, i piloti tedeschi prendono l’abitudine di disegnare bocche di animali feroci sul muso dei loro aerei. Vengono presto imitati da quelli inglesi e i disegni, tutto sommato semplici, facilitano l’identificazione dei mezzi, permettendo di distinguere i nemici dagli amici. Sono pochi gli esempi di immagini più elaborate, tra queste spicca quella del cavallino rampante (poi destinato a diventare il simbolo della Ferrari) sul mezzo volante dell’asso italiano Francesco Baracca.
Eugene Jacques Bullard, primo pilota afro americano, ma di stanza presso l’aereonautica militare francese (non viene invece accettato da quella statunitense perché di colore), preferisce una cicogna. Gli animali, quindi, sembrano essere i soggetti prediletti.
La nose art, che ancora non è identificata come tale, si presenta sporadicamente, con disegni limitati e dal livello artistico spesso poco significativo. Più che altro si tratta di sagome piatte, mentre il colore prevalente è il nero. Per vedere una vera e propria esplosione del fenomeno bisogna attendere la Seconda Guerra Mondiale.
Sarà forse per fare passare il tempo durante le noiose ore trascorse a terra, oppure per il desiderio di distinguersi, per scaramanzia o per la voglia di sfidare il nemico, o ancora per semplice divertimento, ma negli anni Quaranta la nose art diviene una presenza fissa sulle fusoliere, specie quelle degli aerei statunitensi. Non solo, i disegni vengono riportati anche sui giubbotti dei piloti, identificando così l’equipaggio di ogni velivolo, che è generalmente accompagnato anche da nomi stravaganti o ammiccanti, oppure da giochi di parole.
Sul fronte dei soggetti a farla da padrone sono le pin-up femminili. Gli equipaggi, composti da uomini lontani per mesi o anni da casa e fidanzate, si consolano osservando le belle ragazze sulle carlinghe dei loro mezzi. Le fanciulle in questione, dalle lunghe gambe e dal seno prosperoso, devono avere molto caldo in mezzo alla battaglia, dato che indossano pochissimi vestiti, ammesso che li indossino. Inoltre strizzano l’occhio ai militari, ammiccano, si atteggiano in pose provocanti, a cavallo di bombe o impugnando spade sguainate. I mezzi volanti prendono i loro nomi – Blonde Betty, Sal, Bomb Babe, Fabulous Fannie, Calamity Jane, ecc. – oppure puntano su frasi da battaglia: Peace or bust, Finito Benito Next Hirohito, Nightmare, ecc.
La qualità dei disegni varia molto a seconda degli autori, spesso sconosciuti, alcuni dei quali si improvvisano illustratori senza alcuna esperienza in materia. L’incertezza del loro tratto, tuttavia, si fa perdonare con le curve delle discinte figliole. Inoltre, gli apprendisti pittori cercano di ovviare alle loro mancanze “ispirandosi” a immagini di pennelli ben più quotati. Gli basta acquistare una qualche rivista per uomini e da lì copiare la pin-up di turno. Al tempo il magazine più idoneo a tale compito è Esquire, mentre l’artista più apprezzato risulta essere Alberto Vargas. Col nome d’arte Varga, quest’ultimo negli anni Quaranta è sinonimo di pin-up. Nato in Perù il 9 febbraio del 1896, Alberto è figlio di un famoso fotografo, che tra l’altro gli insegna a usare l’aerografo fin da quando ha tredici anni. Studia in Europa, a Zurigo e Ginevra, mentre a Parigi si imbatte nella rivista La Vie Parisienne, rimanendo colpito dalle sue sensuali copertine. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale spinge la famiglia a trasferirsi negli Usa, che divengono la nuova patria di Alberto. Questa volta a colpirlo sono le ragazze americane, che trova estremamente belle e sofisticate. Decide così di abbinare le due cose che apprezza di più, disegno e belle fanciulle, per diventare un illustratore. Prima si occupa di immagini di moda, poi passa a lavorare per il cinema, inizialmente per la Paramount Pictures in seguito per altre compagnie, infine si dedica alle pin-up approdando finalmente alla rivista Esquire, grazie alla quale viene apprezzato dai militari al fronte. La sua popolarità presso le truppe è tale che alcuni soldati gli chiedono di disegnare le loro mascotte, cosa che Vargas fa. Non solo, Esquire gli permette di realizzare pin-up patriottiche per la rivista American Weekly, rafforzando ulteriormente il legame con i soldati e con la nose art. Copie delle sue signorine in deshabille appaiono a centinaia sulle fusoliere dei mezzi volanti a stelle e strisce.
Anche altri, seppur meno abili, si cimentano nel difficile compito di creare mascotte femminili per gli aerei. Tra questi spicca Phil Brinkman, un illustratore pubblicitario che allo scoppio della guerra viene arruolato nella Army Air Corps. Non è un pilota e non ha esperienza in nessun settore della vita militare, viene quindi adibito al semplice ruolo di sentinella in una base di Tucson, nel Texas. Nel tempo libero si mette a dipingere murales all’interno della base e viene notato da un ufficiale che gli propone di dipingere sui musi dei bombardieri B-24 dello 834th squadrone. Dato che si tratta di dodici aerei, Brinkman pensa di dedicare a ognuno di essi un segno zodiacale, ovviamente in versione pin-up. Finito tale lavoro non si ferma, realizzando pin-up dal taglio maggiormente classico per altri velivoli e fornendo così il proprio particolarissimo contributo al conflitto. Un contributo che non è stato dimenticato, a giudicare dal numero di siti a lui dedicati che ne raccolgono la biografia e un gran numero di opere, dai disegni preparatori alle foto delle carlinghe di aeroplani.
Subito dopo le pin-up, tra i soggetti preferiti dagli autori di nose art e dagli equipaggi degli aerei vi sono i personaggi dei fumetti. A volte i due filoni si fondono, dato che al centro dell’attenzione vi sono belle fanciulle uscite da qualche strip. Come la sensualissima Miss Lace, creata da Milton Caniff proprio per una serie a fumetti (dal titolo Male Call) diretta sollevare il morale delle truppe, che dalla carta si trova trasposta sul metallo. La figura longilinea e formosa, gli abiti avari di stoffa e gli occhi alla orientale sono tutti elementi che contribuiscono a rendere Miss Lace estremamente popolare tra le truppe.
Altra star dei fumetti adottata dalla nose art è Daisy Mae da Li’l Abner di Al Capp. La straripante bellezza contadina non è l’unico character di Capp a finire immortalato sugli arerei, dato che anche i meno sensuali Fearless Fosdick e Big Shmoo sono spesso adottati come mascotte.
Largo spazio ai personaggi Disney, tra cui un Topolino in gran forma che, impugnando delle colt, grida “Let them come gang, I’ll take care of them!” (lasciateli venire gente, me ne occupo io!), ovviamente riferendosi agli aerei nemici. Non mancano Bugs Bunny, Little King, Maggie (da noi Petronilla), Popeye e decine di altri, resi popolari dalle strisce sui quotidiani e pronti a fare la loro parte nei cieli di guerra.
A quanto pare, patriottismo e balloons insieme trionfano.

NOTA: le immagini di questo post sono tratte da un volume giapponese interamente dedicato alle "mascotte" aeree disegnate ispirate a fumetti e cartoni animati. In Italia il volume può essere acquistato da fioridiciliegioadriana@gmail.com




domenica 18 luglio 2021

BIGLIE…


Fa caldo. Io me le ricordo quelle estati calde di decenni fa, quando eravamo bambini. I campi di pannocchie che parevano infiniti. Le ore passate all’ombra dei palazzi. Le partite a biglie, le gazzose al baracchino. Quei campi non ci sono più, divorati dal cemento, dalle strade, dalle case. Nessuno gioca più a biglie con me. Mi restano solo il caldo e le gazzose. E brandelli di ricordi, di odori e risate lontane nel tempo. Che darei per un’altra partita a biglie…

mercoledì 30 giugno 2021

TAPPI…


Avevamo milioni di tappi e non ci serviva altro. Colorati, appiattiti tappi di gassose e bibite varie, cerchi di metallo per qualcuno inutili, per noi scintillanti gioielli con cui sfidarsi in partite infinite. Su quelle piste dai contorni di gesso, quei marciapiedi che parevano interminabili. Non possedevamo nulla eppure avevamo tutto. Quella forma perfetta nella sua semplicità, colpita da tocchi di dito per prendere velocità. Concentrati in sfide senza premi, mentre il mondo attorno si faceva sfumato.

sabato 26 giugno 2021

IL PITORE DI SANTINI


Ideatore e autore dell’Omino Bufo è il Pitore di Santini, un ometto sgraziato che somiglia in modo evidente alla propria creatura, con la sola aggiunta di un basco (che fa molto artista) e di una barba poco attraente. Abituato a disegnare sui marciapiedi, viene chiamato a realizzare la rubrica Tilt per il settimanale Corriere dei Ragazzi quando i titolari – gli sfaccendati Alfredo Castelli, Bonvi e Daniele Fagarazzi – sono in ritardo. A suo stesso dire, quindi, “trufa l’asienda diseniando sciochesse”. Già, perché il suo italiano è perfettamente in linea col suo disegno: scorretto e grossolano. Ben presto, tuttavia, si scopre che il Pitore di Santini non esiste. Si tratta di un autore inventato, una farsa messa in piedi da Alfredo Castelli, forse per prendere doppio stipendio. Ecco perché questa biografia è incentrata su Alfredo Castelli e non sul Pitore di Santini.
Nato a Milano il 26 giugno del 1947, Castelli vanta un curriculum vitae di tutto rispetto, avendo cominciato a occuparsi di nuvolette nell’ormai lontano 1966, fondando la fanzine Comics Club 104. Negli anni successivi collabora a diverse testate, tra cui Tiramolla e Topolino. La svolta avviene nel 1972 quando entra a far parte della redazione del Corriere dei Ragazzi (Rizzoli), settimanale per il quale scrive articoli e sceneggiature e si improvvisa persino disegnatore. Non solo, in tale ambito lavorativo il giovane Castelli può permettersi di sfogare tutta la sua vena umoristica, che lo porta a essere additato da alcuni colleghi come “eterno bambinone”, eufemismo, a suo stesso dire, per “deficiente”. Racconta proprio Castelli ricordando quel periodo. “Eravamo chiassosi, ci abbandonavamo ad atti che erano definiti ‘goliardate’. Federico Maggioni (un grafico, ndr), Alvaro Mazzanti (altro grafico, ndr) e io, per esempio, mettevamo insieme di nascosto i compensi di tutti e tre (allora pagavano in contanti), e questo costituiva già una contravvenzione al divieto aziendale di comunicare agli altri l’entità del proprio stipendio. Poi, ognuno di noi, a turno, apriva la busta e contava il grosso malloppo di banconote, fingendo di non volersi far notare, ma in modo da farci vedere dal ‘tirchio’ della redazione, che scoppiava di bile quando vedeva la cifra che apparentemente guadagnavamo noi ultimi venuti.”
L’esperienza col Corriere dei Ragazzi si interrompe nel 1976, quando Castelli passa alla casa editrice di Sergio Bonelli, per cui scrive sceneggiature per Zagor, Ken Parker, Mister No e, in seguito, crea un proprio personaggio: il detective dell’impossibile Martin Mystere.
Anche presso la sua nuova “casa editoriale” l’ormai affermato scrittore non lesina in trovate goliardiche. Nel 1998 scrive il Dizionario dei Misteri – I segreti di Bonelli, un fascicolo realizzato in una sola copia che raccoglie un lungo elenco di aneddoti che riguardano Sergio Bonelli: idiosincrasie e gaffe annotate con grande cura e sense of humour. L’albo nasce come regalo di compleanno per lo stesso editore, con la promessa che il suo contenuto non sarebbe stato divulgato. Promessa mantenuta solo in parte, dato che negli anni qualcosa è comunque trapelato. Sempre riguardo Bonelli, è di dominio pubblico la divertente diatriba sui calzoni corti di Castelli. Bonelli afferma, infatti, che quando Alfredo si è presentato in redazione per la prima volta aveva i pantaloni corti, ma Castelli giura l’esatto contrario e come risposta realizza una vignetta, in stile Pitore di Santini, nella quale i due, entrambi anziani e su sedia a rotelle, si additano a vicenda sostenendo di aver visto l’altro in fasce. Uno sfottò reso possibile dal forte legame di amicizia che li lega, testimoniato tra l’altro da Bonelli in una intervista nella quale racconta: “ad accomunarci è senz’altro quella particolare curiosità che ci spinge a leggere gli stessi libri, a vedere gli stessi film, ma anche a scoprire di esserci separatamente soffermati a osservare, nella grande confusione di un mercatino popolare, esattamente lo stesso oggetto. Abbiamo pure in comune la predilezione per il lato comico della vita e, perché no, anche delle storie che inventiamo. Siamo inoltre simili nella dinamicità che ci spinge verso lunghi frequenti viaggi, come nella dolce pigrizia che ci imprigiona per lungo tempo nei rispettivi studi, tra una confusa montagna di oggetti bizzarri, statuine di legno, gomma, plastica, vecchi ritagli di giornale, giocattoli antichi e paccottiglia di ogni sorta.” È questo forse il ritratto migliore di una delle figure più professionali e al contempo più anarchiche del fumetto nostrano, Alfredo Castelli di giorno, Pitore di Santini di notte (o viceversa).


domenica 23 maggio 2021

MONDI CHE NON SI TROVANO ALTROVE Kentaro Miura



Questa intervista risale a oltre quindici anni fa. Vista la recente scomparsa di Kentaro Miura, la ripropongo in questa sede.

Berserk denota una certa passione per il medioevo europeo. Come è nata e ha influenza nel suo lavoro? 
Le informazioni che si hanno in Giappone sul fantasy occidentale sono un po’ strane. Trovo che i giapponesi siano senza ombra di dubbio il popolo asiatico che più di tutti ama il fantasy europeo. Questo forse è dovuto anche alla storia del dopoguerra. La visione dei valori di questo paese, in Occidente e altrove, è stata per lungo tempo erroneamente intesa: penso che ciò venga espresso in modo del tutto rimarchevole in certi generi fantasy in cui si portano sulla carta determinate immagini e sogni. La maggior parte dei bambini giapponesi ha più familiarità con cavalieri il cui corpo è protetto da corazze piuttosto che con i samurai e i loro chonmage (la pettinatura tipica dei samurai, con un ciuffo di capelli raccolto sulla sommità del capo, Ndr). Il fantasy corrisponde proprio alla magia della spada. Anch’io, per quanto riesca a ricordare, sono cresciuto con questa visione. 
Nel disegnare manga fantasy, io voglio realizzare storie che rendano partecipe il lettore. Quando mi metto a esaminare in modo approfondito le sensazioni di chi fa parte della scena, mi viene naturale ritrovarmi nel medioevo europeo. 
Naturalmente non è il vero medioevo, ma un’immagine fasulla, ricreata, dell’Europa dell’epoca, che riscuote molto successo oggi in un paese orientale come il Giappone. 
Probabilmente, dei samurai o dei ninja disegnati da un occidentale agli occhi di noi giapponesi apparirebbero bizzarri, ma forse lo stesso mondo medioevale di Berserk appare strano agli occidentali, non è così? 
Io sono sorpreso dell’accoglienza ricevuta da Berserk, non tanto presso il pubblico dei moderni giapponesi cui era indirizzato quanto piuttosto presso i lettori del luogo in cui si svolge la storia, ossia l’Europa e in particolare l’Italia… 

Ho notato riferimenti a pittori/illustratori europei inquietanti come Maurits Cornelis Escher (1898-1974, illustratore/matematico specializzato in "illusioni spaziali") e Hieronymus Bosch (1450-1516, pittore fiammingo con una predilezione per le rappresentazioni mostruose). Ha "studiato" le loro opere? 
Apprezzo sia Bosch che Escher, di cui ho anche volumi che ne raccolgono le opere. Inoltre mi piacciono le acqueforti di Pieter "il giovane" Bruegel (1564-1637/8, autore di ossessive rappresentazioni di scene infernali, Ndr) e Gustave Doré (1832-83, scultore, illustratore e pittore francese, celebre per le sue illustrazioni de La Divina Commedia, Ndr) mentre tra gli illustratori ammiro Frank Franzetta (1928, famoso illustratore e fumettista americano, Ndr) e Luis Morrison. 

In Berserk sembrano coesistere due filoni: quello storico/avventuroso e quello fantastico/horrorifico, tuttavia mi sembra che il secondo abbia preso il sopravvento. È d'accordo? 
Berserk è prima di tutto un fantasy. Le parti storiche sono state inserite per aumentare la sensazione di realtà, per scaraventare il lettore sul luogo dell’azione. Inizialmente feci coesistere i due filoni per far sì che mi leggessero anche lettori comuni, coloro che non provano particolare interesse per il fantasy e il fantastico. Non volevo assolutamente fare un’opera solo per maniaci. 

Il lunghissimo flashback con la storia della Squadra dei falchi permette alla storia di "decollare". Lo aveva previsto sin dal principio? 
I manga che personalmente prediligo sono quelli in cui i lettori riescono a “legarsi” ai personaggi, ossia provarne simpatia e compassione, immedesimarvisi. 
Come un poema in prosa dunque, pensai che sarebbe stato meglio raccontare la vita del protagonista tutta d’un fiato, in modo da rafforzare l’amore dei lettori per Gatsu… Certo che però si è prolungata in modo inaspettato! Ma ormai è quel che è fatto è fatto. 
Però, nonostante l’inesperienza, penso di aver dato delle buone rifiniture a un’opera che riesce a creare empatia. 

Uno dei punti di forza di Berserk durante il flashback era proprio la ricchezza di personaggi, non le è spiaciuto "sacrificare" tutta la squadra dei falchi? 
Stranamente è una cosa che ho fatto con la massima serenità. Lasciarsi prendere esageratamente da un certo personaggio non è molto naturale per colui che crea l’opera, come invece può esserlo per i lettori. 
Quello che per me contava era che nel manga l’apparizione di tali personaggi avesse un senso: ci sono momenti per vivere e momenti in cui ci si confronta con la morte… 
Non so se questo possa risultare strano, ma è una cosa cui tengo molto. 

Ha seguito la lavorazione dell'anime di Berserk? E come trova il risultato finale? 
Per la produzione della serie TV sono sempre stato impegnatissimo e pressato dagli impegni, ma non credo che si sia sprecato denaro o tempo. 
Nei loro limiti, tutte le persone impegnate nell'anime stanno facendo del loro meglio. Naturalmente anch’io, quando il tempo me lo ha permesso, ho collaborato con piacere. 

Mi risulta che stia preparando un videogame di Berserk, di cosa si tratta? 
L’anime è incentrato sulla squadra dei falchi, praticamente solo sulla storia dei cavalieri neri, il gioco (per Dreamcast, Ndr) sarà qualcosa di diverso. È il primo mix mediatico relativo a Berserk, e forse sconvolgerà le idee di chi si era creato l’immagine di Gatsu unicamente come cavaliere nero. Fortunatamente, rispetto all’anime ho avuto più tempo a mia disposizione. Non è ancora completo, ma sta venendo abbastanza bene. 

Berserk la sta assorbendo totalmente, pensa che in futuro tornerà al lavoro su “Japan” o sta pensando ad altre storie? 
Non ho intenzione di tornare su “Japan”, ma prima o poi vorrei provare a disegnare qualcosa di fantascienza. Penso che il fascino squisito dell’essere mangaka consista proprio nella possibilità di creare “mondi” sempre differenti che non si trovano altrove.

martedì 4 maggio 2021

CHI È QUELLA BAMBINA?


Ogni volta che piove nella mia mente (dal funzionamento un po’ bislacco, lo ammetto) si forma un’immagine che trovo malinconica e gioiosa al medesimo tempo. È l’immagine di Totoro che aspetta alla fermata di un autobus, con una foglia quale copricapo, e una bimba un po’ perplessa con ombrello al suo fianco. Trovo sia una delle immagini più poetiche del mondo dell’animazione e non solo. Nella penombra di quel luogo imprecisato, in mezzo alla campagna, mi pare quasi di sentire il picchiettare delle gocce d’acqua che cadono su alberi e terreno. Sto parlando del film, o meglio della sua locandina, “Il mio vicino Totoro”, creato da Hayao Miyazaki e distribuito in Giappone nel 1988. Tuttavia, quel poster ha qualcosa che non va. Nonostante si tratti del poster della versione originale apparsa nelle sale, utilizzato talvolta anche come cover del DVD o per scopi pubblicitari, la ragazzina a fianco di Totoro non è un personaggio del film. Non è né Satsuki né Mei, le due bambine che nel film incontrano Totoro. Un giornalista giapponese ha deciso di indagare per scoprire chi sia quella misteriosa ragazzina. “Il mio vicino Totoro” originariamente era un libro illustrato per bambini, che è stato poi trasformato in un film. Quando è arrivato il momento di creare la locandina per il film, Miyazaki non è riuscito a trovare la giusta composizione e, dopo diverse revisioni, ha deciso di tornare all’immagine originale del libro illustrato realizzandone una molto simile. Ma perché il poster ha resistito tutti questi anni senza che ne fosse realizzato uno nuovo con le bambine che, invece, nel film sono presenti? All’inizio “Il mio vicino Totoro” non riscosse un grande successo, divenendo molto popolare solo dopo essere stato trasmesso più volte in televisione, per questo motivo e forse per un pizzico di pigrizia (o perché era comunque perfetto così), lo Studio Ghibli non ha mai pensato di cambiarne il poster, che resta bellissimo.

lunedì 28 dicembre 2020

OSCAR CHICHONI


Diversi anni fa, almeno dieci andando a memoria, ho intervistato l'illustratore argentino Oscar Chichoni per la sfortunata rivista Robot. Ho ritrovato la breve intervista nell'archivio del mio computer. Mi spiace lasciarla lì a prendere polvere virtuale, così ho deciso di postarla qui. Buona lettura.



Guardando le sue illustrazoni il futuro sembra sempre una cosa cupa e inquietante. È Così che lo vede?
Non saprei. Certo c'è un clima di paura, specie nell'uso del colore. Il futuro è una cosa sconosciuta, è un mondo nuovo che ancora non si conosce, quindi ci provoca paura. Penso però che sia una sensazione che proviamo tutti. Comunque cerco anche di scherzarci sopra.

Si riferisce forse a quei futuristici putti che appaiono spesso nelle sue immagini facendo gestacci e boccacce?
Proprio così. In fondo sono dei niños, dei bambini che strizzano l'occhio allo spettatore.

È forse il carattere latino che esce fuori, ironizzare e smitizzare tutto, anche le paure.
Non so, è possibile.

A cosa è dovuta la sua predilezione per il metallo, per le figure gigantesche e arrugginite, granitiche?
Tutti noi abbiamo fatto delle esperienze che fanno parte di noi stessi. Da bambino giocavo in una specie di cimitero di locomotive a vapore, forse è nato tutto da lì, dal ricordo di quei mostri arrugginiti al sole. Erano quasi dei simboli della vita, cose enormi eppure destinate a morire, ad arrugginirsi, oppure a essere fatte a pezzi e riutilizzate. È il ciclo della vita.

Visto che ha nominato il sole, in effetti il ferddo metallo delle sue illustrazioni è spesso scaldato da una luce calda…
Vero, accade spesso anche questo.

Per un illustratore abituato a lavorare sempre da solo, arteficie assoluto del prprio lavoro, è stato difficile lavorare per il cinema?
No. In effetti ho lavorato da solo per tutta la vita e all'inizio pensavo che l'esperienza col cinema sarebbe stata terribile. Invece è stato l'opposto. Oggi preferisco il lavoro di squadra: è molto più stimolante e dinamico. La cosa che più mi interessa è ottenere un buon prodotto finale, cosa che è più facile fare in gruppo, anche se un po' scompare la mia persona.

Ho letto che non usa il pennello, è vero?
Lo uso il meno possibile, preferisco le matite e i pastelli a olio. Non ho un buon rapporto col pennello. Talvolta lo uso per realizzare le figure umane, ma in tutti gli altri casi preferisco le matite.

Utilizza il computer?
Non ancora. Ho intenzione di utilizzarlo, ma per ora non ho tempo. Inoltre ho capito che i giovani lo utilizzano già benissimo, meglio di quanto potrei fare io. Nel mio lavoro di art director per videogiochi ho coordinato molti ragazzi che usano il computer: sono davvero bravi, fanno cose egregie. Io lavoro ancora con carta e matita e lascio che siano gli altri a trasformare le mie illustrazioni in immagini virtuali. Credo di appartenere a un'altra generazione.

Cosa legge e cosa guarda Oscar Chichoni?
Leggo quello che leggono le persone comuni, nulla di particolare. Buona letteratura, buon cinema, ma non sono uno specialista in niente, anzi, quando qualcuno parla di cinema mi sento ignorante. Spesso leggo cose opposte a quello che sto facendo: se realizzon un'immagin di fantascienza leggo avventura, e viceversa. È un modo per cercare stimoli che non interferiscano.

Ha mai pensato di realizzare fumetti?
Li ho fatti, ma quando avevo 17 anni, per le Edizioni Record, per cui hanno lavorato grandi artisti come Juan Zanotto. Mi sono dedicato anche alla pittura. Quando si è giovani si sperimentano tante strade… Alla fine sono arrivato all'illustrazione, che è un modo di coniugare pittura e fumetto.



venerdì 13 novembre 2020

SPIDER-MAN FA PUBBLICITÀ

Incredibile cosa si può trovare scartabellando all'interno di vecchi scatoloni di fumetti. Ecco saltare fuori la copia di uno sconosciuto comics-book di Spider-Man. L'albo in questione si intitola "Spider-Man Fire-Star and Ice-Man Danger in Denver" ed è un albo promozionale del 1983, regalato come supplemento del quotidiano The Denver Post. Si tratta di un albo gratuito teso a promozionare Il May D&F (per esteso May Daniels & Fisher) un grande magazzino della città di Denver. L'albo contiene, infatti, diverse pagine dedicate alla pubblicità (tutte disegnate) di capi d'abbigliamento venduti dal medesimo magazzino. Ovviamente contiene e anche una breve storia a fumetti incentrata sui supereroi del titolo, all'epoca di successo grazie a alla serie animata "Spider-Ma and his Amazing Friends". Una trama molto semplice vede i tre eroi contrastare il supercattivo Abominio intenzionato a uccidere il presidente degli States. Non mi è chiaro chi sia il disegnatore (o i disegnatori), di medio livello, ma la cover è di John Romita Senior. Non è mai stato pubblicato in Italia ed è di difficile reperibilità anche negli USA (ma su ebay lo trovate).


sabato 17 ottobre 2020

UN GATTO CHE NON È UN GATTO


Esiste un luogo dove i topi amano i gatti e questi ultimi passeggiano sulla Luna, mentre cani ed esseri umani sono costretti a subire le loro stravaganti angherie. Tale incredibile mondo non si trova in un'altra dimensione o su un pianeta alieno, ma proprio qui, sulla Terra, tra le pagine di quegli illustratissimi e variopinti albi che chiamiamo fumetti. Simpatici e pestiferi felini albergano infatti nel mondo delle nuvolette sin dalle origini di questo particolare medium, caratterizzandosi per originalità e forza trasgressiva. I mici di carta pur apparendo talvolta estremamente differenti da quelli reali per aspetto e comportamento, riescono tuttavia a mantenere intatta la loro essenza, la loro felinità, quello strano ossimoro esistenziale che li rende animali domestici e selvatici al medesimo tempo, pronti a convivere con gli esseri umani ma solo alle proprie condizioni. Una contraddizione che nelle tavole disegnate si manifesta attraverso nonsense, ardite soluzioni grafiche, strizzatine d’occhio all’arte moderna, desiderio di indipendenza e trasgressione. Il Big Bang di questo particolare universo, che spesso viola le leggi della fisica che conosciamo, è datato 1910, quando prende vita la prima striscia avente quale protagonista un gatto. Si tratta di Krazy Kat, una decisamente talmente innovativa per quei pionieristici anni. Il suo creatore, George Herriman, imbastisce un teatrino con pochi personaggi e un copione dalle regole tanto rigide quanto libere e innovative. Nell’immaginaria città di Coconino il gatto Krazy Kat (di cui non viene specificato il sesso) è innamorato del topo Ignatz. Quest’ultimo risponde lanciandole un mattone e finendo in gattabuia grazie all'intervento del cane poliziotto Offissa Pupp, a sua volta infatuato di Krazy che si dispera per il destino del topo. Herriman, senza saperlo, ha gettato le basi per una visione dei gatti, surreali e anarchici, destinata a tenere banco fino ai giorni nostri. Così, nel successivo Felix the Cat (noto in Italia anche come Mio Mao) mutano personaggi e luoghi ma la musica non cambia. Creato nel 1917 da Pat Sullivan come cartone animato, nel 1923 Felix viene trasformato in fumetto da Otto Messmer. Si tratta di un gatto dai comportamenti umanizzati ma dotato di una logica assurda, tanto che nelle sue avventure tutto è possibile, con oggetti che si trasformano e comiche situazioni ambientate sulla Luna.
Le mode passano, ma la pervicace indipendenza dei gatti non tramonta. Non stiamo qui a elencarli tutti, anche perché non basterebbe un libro, e arriviamo subito al soggetto principale di questa recensione. Negli anni Ottanta l’italiano Franco Matticchio comincia a scrivere e disegnare brevi storie di Jones, un gatto antropomorfo che ha ben assorbito e rielaborata la lezione di Herriman, anche se Matticchio sostiene non trattarsi di un gatto (guardatelo e giudicate voi). Storie talvolta mute, nelle quali può succedere di tutto e dove le regole della realtà sembrano non valere, lasciando spazio a un mondo onirico e visionario del quale Jones è talvolta protagonista involontario e talvolta solo spettatore. Forse, il suo assumere forma semiumana ne ha indebolito l’essenza felina, quasi onnipotente, dei suoi predecessori di carta e di china, pur mantenendolo molto più incontrollabile, mutevole e inarrestabile, di noi semplici umani.
Il suo nome completo è Ezekkiah Jones, ma da bambino lo chiamavano semplicemente Zeke. Ha una benda da pirata sull’occhio sinistro (sin da bambino) ma non si sa il perché. A chi scrive questo suo aspetto polifemico ricorda un vecchio sketch del comico Francesco Salvini, che aveva battezzato col nome Categorico un pupazzino saltellante con un solo occhio, che (proprio perché monocolo) a suo dire aveva un solo punto vista ed era perciò categorico nelle sue opinioni. Ma a parte questa menomazione fisica i due sono molto differenti, perché Jones appare aperto a ogni soluzione incredibile, muovendosi in brevi racconti ove tutte è possibile. Potremmo dire che i suoi disegni sono principalmente in bianco e nero, ma nelle sue storie ne succedono di tutti i colori. Quindi, Jones litiga con un cuscino che prende vita, insegue il suo cappello su alberi che sembrano non avere mai fine, vede crescere e prendere vita i fiori sulla sua camicia hawaiana. All’inizio si stupisce anche lui di tante stravaganze, ma poi si lascia trasportare da esse, novello Gulliver del sogno e del nonsense. D’altra parte, se può esistere un gatto antropomorfo possono esistere anche luoghi fantastici ove sogno e realtà si confondono, convivono e talvolta lottano tra loro. Anche se non è chiaro quale sia il vincitore. Con un tratteggio dal sapore vagamente ottocentesco e storie che ricordano la slapstick comedy e il limerick per immagini invece che per versi, Jones è un novello Alice in fumetti di meraviglie. Che importa se le trame non hanno senso (ma veramente non ne hanno?), l’importante è che ci incantino e ci trascinino al loro interno trasformando anche noi, per il tempo della lettura, in piccoli Jones e in piccole Alici.   




venerdì 17 luglio 2020

FEMMINE INCANTATE


Nella seconda parte della sua vita artistica l’Oriente continua a influenzare Magnus, a fornirgli spunti grafici e narrativi. Le sette storie brevi, autoconclusive e indipendenti, del ciclo Le Femmine Incantate non sfugge a questo destino, anche se, come vedremo, è lo stesso Magnus a “tradire” il presupposto asiatico. Ma cominciamo dal principio…
La serie nasce nel 1987 per essere pubblicata in Francia, sulla rivista L’Echo des Savanes prima e in volume da Albin Michel dopo, mentre in Italia viene proposta sulle riviste La Dolce Vita e Comic Art e solo nel 1990 in volume da Granata Press. Nella sua continua ricerca di formati e soluzioni per rilanciare il fumetto, all’epoca Magnus ritiene che bisognerebbe cercare di uscire dalle solite cose, fare edizioni diverse. Per Le Femmine sogna un formato simile a quello del quotidiano La Repubblica e se la prima pubblicazione, parziale, sulla sfortunata rivista “gigante” La Dolce Vita in parte gli dà ragione, quella successiva su Comic Art mortifica il lavoro grafico certosino, non del tutto valorizzato neanche dalla pubblicazione in volume, seppur di discrete dimensioni. L’artista sa di scontrarsi con preventivi già stabiliti e formati consolidatisi da tempo, per non parlare dello scoraggiamento degli operatori del settore in crisi sul piano commerciale. In ogni caso, la serie viene pubblicata più volte e, seppur meno nota di altri suoi lavori, rappresenta un tassello importante nella carriera di Magnus autore completo.

DALL’ORIENTE CON MODERAZIONE
Riguardo la genesi dell’opera, è lo stesso Magnus a raccontare in un un’intervista, “ho preso lo spunto da una serie di novelle, I Racconti Fantastici di Liao, completamente diverso da Le Femmine Incantate. Ci sono storie molto belle di fantasmi e apparizioni, storie buffe, storie di monaci… Ho enucleato alcune figure femminili e le ho rielaborate, restando però fedele allo spirito complessivo. Spesso si tratta di due o più racconti combinati. In più c’è tutta una mia storia personale. C’è dentro anche una mia esperienza. Ne ‘La Guardiana del Ponte’ non c’è niente che non sia accaduto realmente.”
I racconti fantastici di Liao (noto anche come I Racconti Fantastici dello Studio di Liao) di P'u Sung-ling sono la più famosa raccolta cinese di racconti in lingua parlata. Pubblicati solo nel 1766, sono quasi un’enciclopedia della novellistica cinese. Più di quattrocento storie di argomento immaginario e soprannaturale che hanno quali protagonisti figure del folklore locale come fantasmi, spiriti-volpe, ninfe, bonzi buddisti, immortali, animali e piante magiche che interagiscono e stringono relazioni con gli esseri umani. Magnus, come ha lui stesso dichiarato, fa il proprio lavoro di scrittore, preleva spunti, riscrive episodi, assembla racconti diversi, ma non è questo il “tradimento”, del tutto legittimo si intende, di cui parlavamo, bensì la scelta di disporre il tutto su un piano grafico, geografico e temporale che nulla ha a che fare con l’antica Cina. Se i primi due episodi, “La Grande Signora” e “Il muro dipinto” mantengono elementi grafici orientali, con edifici, costumi e accessori che effettivamente si rifanno all’Oriente, dal successivo “I fiori operosi” compaiono elementi che rimandano al presente (se non addirittura al futuro) come moderni treni e aeroplani. Oppure cavalieri e palazzi che ricordano il Medioevo europeo, persino eserciti di Lanzichenecchi. Sul fronte paesaggistico, ma anche per quel che riguarda abitazioni, abiti e cibi, storia dopo storia Magnus sembra attingere sempre più a ciò che lo circonda, alle colline Emiliane, a tal punto che nell’ultima vignetta dell’ultima storia sullo sfondo potrebbero esserci le fortificazioni della vallata di Castel del Rio, paesino nel quale Magnus trascorre i suoi ultimi anni. L’artista, insomma, non ha semplicemente trascritto graficamente quelle storie, ma le ha assimilate, digerite e rielaborate in una nuova forma, del tutto personale.

UN LAVORO CERTOSINO
Non è l’unico “tradimento” perpetrato da Magnus. Chiariamo, continuiamo a utilizzare la parola tradimento non in senso negativo, ma come “lampeggiante” per segnalare una personale rielaborazione, una volontà di rottura e cambiamento rispetto a canoni consolidati, anche dello stesso Magnus. Il grande formato permette, a volte costringe, l’autore a impostare le tavole in modo differente. Così come l’origine letteraria delle storie, e le poche tavole a disposizione per ognuna di esse, lo portano a utilizzare un linguaggio più alto e didascalico rispetto al solito. In tavole tanto grandi, che in originale somiglieranno più a lenzuoli che a fogli di carta, Magnus delinea vignette che, seppur squadrate, spesso non hanno forma regolare ma tendono a entrare leggermente una dentro l’altra, si sviluppano in orizzontale o in verticale. Poco propense a ospitare i bianchi sono affollate di persone, edifici, oggetti. Le modeste case di campagna, come i sontuosi palazzi vengono dettagliati fino allo sfinimento, mentre la vegetazione è a dir poco lussureggiante, in particolare gli alberi sono un maestoso intrecciarsi di rami che incanta e stupisce. Quella stessa vegetazione, gioia per gli occhi del lettore, deve essere sembrata una sorta di incubo per Magnus, costretto a ore sul tavolo da disegno per raggiungere tali risultati.Troppo, troppo, troppo di tutto. Troppe vignette, troppi segni, troppe parole. Il risultato finale per quanto spettacolare “tradisce” (e ci risiamo) lo spirito del fumetto. Quest’ultimo, che deve essere narrazione scorrevole, movimento, flusso di immagini e parole, tende a rallentarsi davanti a tale straboccante ricchezza di tratti da osservare. Una deviazione dalla via smorzata, fortunatamente e opportunamente, dalla “forza” dei personaggi, che fanno da collante e da fulcro al tutto. Personaggi femminili che, talvolta fantastici talvolta fortemente reali, sono al centro della narrazione.

IL RACCONTO PIÙ BELLO
L’episodio più bello, col personaggio femminile più interessante e la storia più realistica ben poco ha a che fare con i racconti di Liao, e rinuncia al fantastico e all’erotismo per raccontare semplicemente la vita di una donna. In “La guardiana del ponte” la giovane Koo, figlia di un mugnaio, affronta una vita lunga e difficile, ma non priva di soddisfazioni, facendo da contraltare a uomini incapaci e violenti, propensi più a distruggere che a creare o conservare. Koo è la rappresentazione del meglio dell’essenza femminile, artefice di vita, custode del focolare, simbolo di quel femmineo eterno che può salvare l’uomo e quindi il mondo intero. Tutto ciò senza magia, ma semplicemente con la forza di volontà e il duro lavoro quotidiano, la coscienza pulita e le braccia stanche. Uno dei più poderosi omaggi al femminile della narrativa a fumetti.
Inoltre, “La guardiana del ponte” elimina anche tutte quelle sfumature favolistica che pervadono le storie precedenti del ciclo, riportando il tutto su un piano molto pragmatico. Già la prima tavola, composta da quattro larghissime vignette orizzontali delinea in modo concreto e preciso il luogo in cui si svolge la vicenda: la campagna, il fiume, le chiuse, luoghi precisi, con le loro regole, i loro ritmi. La vita della protagonista, all’inizio assai difficile, si srotola in modo lineare, senza grandi colpi di scena, senza “principi azzurri”, senza soluzioni folcloristiche, seguendo i cicli delle stagioni e piegandosi alle necessità dell’esistenza. È proprio questo suo realismo, questa sua concretezza a renderla interessante e a farci rimpiangere il fatto che Magnus non abbia mai pensato di dedicarle un intero romanzo grafico, piuttosto che un solo racconto breve. Ne sarebbe certo scaturita un’opera di grande umanità e intensità emotiva, degna della migliore narrativa, non solo fumettistica.


venerdì 10 luglio 2020

FONTI DI ISPIRAZIONE PER LA COMPAGNIA DELLA FORCA


Dopo Lo Sconosciuto, Magnus prosegue il proprio percorso evolutivo, ma lo fa compiendo una svolta grafica e narrativa grazie a una serie umoristico fantasy, La compagnia della forca, pubblicata a partire dal 1977. Un tascabile sempre per l’editore Barbieri, che forse ambirebbe a una serie in stile Alan Ford, ma Magnus, in tandem con Giovanni Romanini, ha in mente ben altro. C’è, ne La Compagnia, una componente debitoria nei confronti della letteratura (e non solo) picaresca e nelle sue evoluzioni medievali e satiriche, rivisitate da Magnus in modo personalissimo.
Si fissa convenzionalmente la nascita del romanzo picaresco al 1554, grazie alla pubblicazione del Lazarillo de Tormes scritto da un anonimo. Il termine picaresco deriva dallo spagnolo picaro, con cui nella Spagna del Cinquecento e del Seicento vengono indicati i giovani furfanti, poveracci che cercano di sopravvivere alla miseria sfruttando mezzucci. Il picaro si contrappone all’hidalgo, il nobile, in una lotta sociale fatta di bianchi e neri così come si manifesta nella Spagna cinquecentesca, che non a caso è dotata di uno degli eserciti più numerosi d’Europa: tanti disperati che non hanno di che mangiare si arruolano per avere perlomeno vitto e alloggio. Il picaro sceglie un’altra strada, quella del furto e degli espedienti
Nel Lazarillo, scritto in forma autobiografica, il protagonista è antieroe per eccellenza, un vagabondo che si procura da vivere con espedienti. Sempre in viaggio, affamato e mal vestito presta i suoi servigi a un mendicante cieco, a un prete, a un pittore da strada, a un frate, ecc. Insomma a chiunque in grado di dargli qualche soldo e non si formalizza se deve infrangere la legge per sopravvivere. Impara dalla strada, i suoi maestri sono i poveracci, i miserabili, i mendicanti.
Lazarillo è una figura autentica, frutto dell’osservazione della realtà. Quelli che vengono dopo di lui, dato che il romanzo apre la strada a un genere, man mano se ne discostano per diventare sempre più figure metaforiche, letterarie, di fantasia. Mentre il Lazzarillo rappresenta la denuncia di una società impietosa, opere successive rendono quella stessa denuncia più blanda, fino diventare quasi inesistente. Anche il tono della narrazione si fa sempre più semiserio, mescolando i generi della tragedia e della commedia. Fino a trasformarsi in altro.

CONTRO I MULINI A VENTO
Il Don Chisciotte della Mancia, di Miguel de Cervantes, pubblicato nel 1605, fonde il romanzo picaresco con la letteratura cavalleresca. Già quest’ultima racconta avventure che alternano toni epici con toni satirici o grotteschi, ma il Don Chisciotte va oltre, portando in scena delle avventure tragicomiche in cui la realtà si mescola alla fantasia. Il protagonista, infatti, dopo aver letto le gesta di antichi cavalieri medievali si convince di essere egli stesso un cavaliere errante e comincia a vagare per la Spagna in cerca di avventure. Peccato che la Spagna del Seicento non sia quella dell’anno mille e che, di conseguenza, le opportunità di dimostrare il proprio valore siano scarse. Così la sua fantasia trasforma i mulini a vento in giganti, i burattini in demoni, le greggi di pecore in agguerriti eserciti di arabi. Il suo scudiero, un contadino assunto per ricoprire tale ruolo, inizialmente prova a dissuaderlo dal cacciarsi nei guai, cercando di mostragli la realtà, ma un po’ alla volta sembra essere trascinato nel mondo fantastico del suo padrone.
Il Don Chisciotte ha da subito un successo clamoroso, che si protrae fino ai giorni nostri, dando vita a imitazioni ed epigoni. Non vogliamo qui dilungarci e annoiarvi con elenchi di titoli e autori, ma certo è che la letteratura ironica di ambientazione medievale è assai variegata. Vale la pena, però, citare almeno Storie dell’anno mille, di Luigi Malerba, pubblicato nel 1970. Ne è protagonista Millemosche, cavaliere senza cavalcatura, che viaggia alla ventura in compagnia dei buffi Pannocchia e Carestia per un medioevo tragicomico. I tre sono impegnati nell’uscire dai guai e, soprattutto, nel placare la fame, presenza costante nelle storie, un po’ come lo è stata nelle disavventure del Lazarillo. Per qualche strano motivo, la fame, tanto terribile nella realtà, è in grado di strappare sorrisi nella finzione narrativa.

CAVALIERI PER RIDERE (O PIANGERE)
Il medioevo grottesco, i cavalieri tragicomici, la lotta alla fame, gli armamenti scalcinati, le armature rappezzate trovano spazio anche al cinema, non solo in adattamenti dei romanzi citati, ma anche in pellicole ex-novo che sanno fare tesoro delle trovate e delle suggestioni letterarie. L’esempio più eclatante, e più volte citato come fonte di ispirazione per La Compagnia della Forca, è dato da L’armata Brancaleone. Questo film del 1966, che vanta la regia di Mario Monicelli e un cast di importanti attori che comprende Vittorio Gassman, racconta di una scalcinata compagnia di ventura, guidata da Brancaleone da Norcia, che parte per le Crociate. Composto da miserabili e straccioni, che parlano con un idioma maccheronico che mescola latino, italiano e dialetti vari, il gruppo lungo il cammino si imbatte in varie vicissitudini che gli impediscono di raggiungere il Santo Sepolcro, ma gli consentono di incontrare altri individui spesso altrettanto grotteschi. Il successo della pellicola è tale che nel 1970 dà vita a un sequel, intitolato Brancaleone alle Crociate, sempre diretto da Mario Monicelli e con Gassman quale condottiero.
Del 1971, invece, è lo sceneggiato Storie dell’anno Mille, versione televisiva del già citato libro (i due nascono praticamente in contemporanea), sei puntate nelle quali il principale nemico dei protagonisti resta la fame. Rimontato, lo sceneggiato viene proposto anche sotto forma di film, ma è ben lontano dall’impatto visivo e dalle trovate umoristiche di Brancaleone.
Il cinema italiano si impegnerà ancora nel rappresentare il medioevo (e oltre) in chiave satirica, ma si tratta di pellicole che non possono avere influito su La Compagnia, poiché uscite successivamente. Al contrario potrebbe essere stata La Compagnia a fornirgli spunti. Si tratta di lungometraggi come Non ci resta che piangere (1984), nel quale il bidello Mario (Massimo Troisi) e l'insegnante Saverio (Roberto Benigni) si ritrovano misteriosamente trasportati nella Toscana del millequattrocento e devono imparare a sopravvivere tra mille equivoci.
I picari, del 1987, si ispira ai romanzi Lazarillo de Tormes e Guzman de Alfarache (del 1599), sempre di genere picaresco, e riporta alla regia Mario Monicelli, che a quanto pare coi picari si trova decisamente a proprio agio.

ALL’ARMI SIAM FUMETTI!
La Compagnia della Forca non è certo l’unico fumetto che mescola i picari con il fantastico, l’avventura con la satira, la storia col fantasy. Prima di Magnus, altri hanno affrontato il periglioso cammino del medioevo umoristico. Probabilmente non sono in molti a sapere che i famosissimi Puffi nascono sulle pagine di un altro fumetto, Johan et Pirlouit (in Italia John e Solfamì) di Peyo, pubblicato in Francia dal 1952. La serie racconta le buffe avventure del cavaliere John accompagnato dalla stravagante scudiero Solfamì, che cavalca una capra e strimpella su un mandolino a tre corde più alto di lui. Peccato sia completamente stonato. In questa serie l’attrito sociale è ignorato a favore di avventure semplici e divertenti, dopotutto si tratta di una serie per ragazzi.
Straordinariamente divertente è il medioevo delle Mattaglie, le dettagliatissime illustrazioni che l’italiano Luciano Bottaro realizza a partire dal 1967. Si tratta di gigantesche vignette in cui decine e decine di buffi soldati si affrontano in complesse schermaglie stemperate dalla battuta di turno. Il caos d’insieme e la violenza dello scontro vengono smussate dal tratto tondeggiante, dai buffi nasoni, dalle gag fulminanti. Per cui in un’immagine dove non vi è un centimetro libero, dato che tutto lo spazio è occupato da soldati che si affrontano a colpi di mazza e spada, l’azione si congela di fronte all’esclamazione di uno dei combattenti: “chi ha perso un bottone di madreperla?”
Lo stesso Magnus non è nuovo all’ironia medievaleggiante, dopotutto nel 1968 firma, su testi di Max Bunker, i disegni di Maxmagnus. Si tratta di tavole autoconclusive in cui si evidenzia una forte vena grottesca, fatta di governanti avidi e privi di scrupoli e di sudditi straccioni succubi del potere. Hidalgo e picari, portati ai massimi livelli. Lo scontro, però, non avviene a colpi di spade e lance, ma di tasse e balzelli, al punto che un personaggio non si esime dall’esclamare “ci sono più tasse che giorni dell’anno.”
Con Le strane historie di Bellocchio e Leccamuffo, del 1970, su testi di Corrado Blasetti e disegni di Giovanni Sforza Boselli, ci si trova a cavallo tra alto e basso medioevo (come ben spiegato all’apertura di ogni episodio) e i personaggi del titolo sono due picari che cercano di sopravvivere tra soldati e prepotenti sempre pronti a menar le mani. Loro principale preoccupazione resta riempire la pancia, poiché come ormai si sarà capito la fame resta una delle principali problematiche di questo genere narrativo.

INFINE, LA COMPAGNIA…
Non sappiamo quante delle opere citate abbiano effettivamente influenzato Magnus, ma sicuramente buona parte del loro immaginario, fatto di personaggi stravaganti, differenze sociali, necessità di mettere insieme il pranzo con la cena, combattimenti tra cavalieri, si trova nella testa dell’autore quando comincia a stendere gli appunti sulla serie. Al contrario di quanto fatto con Maxmagnus, dove abbondano i neri e le atmosfere sono spiccatamente ciniche, per La Compagnia Magnus vuole un bianco e nero più pulito, più solare, più elegante. Si tratta, poi, di un’opera incentrata su un collettivo, e in questo senso vicina ad Alan Ford, ma decisamente meno dissacrante. Nelle avventure di questo improbabile gruppo di mercenari riecheggiano, seppur in lontananza, anche la purezza delle compagnie eroiche della fantasy tolkeniana, la quest della letteratura di genere, l’eroismo dei poemi cavallereschi. Nel suo essere contenuto di infiniti spunti provenienti da ogni dove, La Compagnia diventa straordinariamente originale, fumetto popolare eppure ricercato come solo Magnus è in grado di realizzare e, in fondo, di essere.





martedì 30 giugno 2020

MODA & FUMETTO


Esiste una categoria di artisti che, consapevolmente o inconsapevolmente, si occupa quotidianamente di fashion senza che gli venga riconosciuto. Non sempre almeno. Stiamo parlando dei fumettisti. Probabilmente non ci avete mai pensato, ma anche i personaggi dei fumetti devono vestirsi (o essere vestiti) e i loro abiti dipendono dalla loro occupazione e dalla loro personalità, proprio come i nostri. I loro autori, quindi, devono improvvisarsi stilisti virtuali e studiare per loro abiti, accessori, outfit, scarpe, cappelli e via dicendo. Certo non tutti sono fashion designer del medesimo livello, alcuni copiano da cataloghi di moda, altri inventano autonomamente i propri capi. Alcuni sono “costretti” a farlo. È il caso degli autori di fantascienza, che debbono inventarsi di sana pianta gli abiti del domani, magari cercando di prevedere gli sviluppi futuri della moda “reale”. Tra i più bravi vi è sicuramente Moebius, nome d’arte di Jean Giraud (1938 - 2012), che il futuro lo respirava a pieni polmoni, lo creava letteralmente, facendolo fluire dalla sua mente alle proprie mani per riportarlo sulla carta. Sognatore, faceva sognare anche i suoi lettori con immagini affascinanti. Quando si trattava di vestire personaggi provenienti da altri mondi, luoghi lontani nello spazio e nel tempo, Moebius optava per abiti comodi, semplici, eppure estremamente immaginifici. Non solo, sembrava pescare idee dal passato per adattarle al futuro. I suoi longilinei characters, infatti, indossano spesso pantaloni alla zuava, abbinati a colorati collant maschili. E sopra… Belle maglie a tinta unita con splendidi gilet, decorati in modo sopraffino da disegni sofisticati, stelle e strani simboli. Quando fa freddo basta aggiungere giacche aperte o ampi mantelli, che dal lontano Medioevo sono sbarcati su avveniristici sistemi stellari. E i cappelli? Quali meraviglie, da semplici semisfere colorate a intriganti coni arrotondati, dal tessuto morbido e dai comodi e fascinosi laccetti. Morbidezza, ecco una parola chiave di questa immaginaria linea di moda: i tessuti pastello trasmettono tutti una sensazione di morbidezza, di comodità, di benessere. Se qualche stilista del nostro mondo avesse il coraggio e l’intraprendenza di proporre quegli straordinari abiti nella realtà, io correrei subito ad acquistarli.